Essere o non essere?

Una volta chiesi ad una mia amica quale fosse per lei la cosa più importante della vita.

La sua risposta, immediata e sicura, mi giunse del tutto inattesa e non poté fare a meno di farmi riflettere e rivedere le mie idee. Come risposta mi aspettavo che dicesse l’amore, l’amicizia, la salute oppure il successo, i soldi, il potere o ancora la famiglia, il lavoro e mille altre possibili risposte tranne quella che ricevetti. “La cosa più importante della vita – mi disse – è la vita stessa”. Come non darle ragione? Senza la vita nulla può esserci di tutto il resto, buono o cattivo che sia.

Sebbene la vita sia il bene più prezioso che abbiamo essa viene continuamente messa a rischio e negata nelle più svariate circostanze e molto spesso, nella nostra società capitalista ma non solo in essa, gli si dà valore solo nella misura in cui la si possa “godere”, negandole un valore e un significato nel caso in cui è caratterizzata da una malattia incurabile e/o invalidante dal punto di vista relazionale. Non posso fare a meno di pensare ad un documentario della propaganda nazista, degli anni precedenti la seconda guerra mondiale, in cui si auspicava la soppressione delle persone con disabilità fisiche e/o mentali giustificando la scelta col fatto che queste persone non avevano una prospettiva di vita né fisicamente sana né felice e costituivano un “peso economico” non indifferente per l’intera società, togliendo risorse per progetti di sviluppo sociale, sanitario, tecnologico, culturale, scientifico, e quant’altro. Di fronte alla malattia e alla sofferenza, senza prospettive di uscita da tali situazioni, certamente è difficile scegliere di vivere, tanto più quando vengono meno la solidarietà umana e il sostegno fisico e morale di qualcuno che mostri di “tenere alla tua persona” e di avere desiderio della tua presenza così come sei; altrettanto certa è la fatica, spesso anche la frustrazione, nel non potere essere di aiuto in modo risolutivo alle sofferenze della persona che hai accanto e diventa facile scegliere la “scorciatoia” della morte piuttosto che il faticoso impegno per alleviare quanto più è possibile ogni forma di sofferenza salvaguardando il bene unico e irripetibile della vita. Oggi spesso viene mostrato come un progresso, una scelta di civiltà e di libertà, il fornire i mezzi per l’aborto o l’eutanasia, ma siamo sicuri che ciò non serva a negare, prima di tutto a se stessi, l’incapacità di condividere le difficoltà, il dolore e la sofferenza e di sapere offrire speranze e momenti di gioia nonostante tutto? Quando ci si trova in una situazione di grande sofferenza, fisica o psichica, tale da non vedere o non esserci una via d’uscita, si può seriamente parlare di libertà di scelta? O il voler morire è piuttosto il segno di una pura ed alta disperazione in cui ci si sente totalmente soli e dove non esiste più libertà? La lotta per la vita e per il miglioramento delle sue condizioni ha da sempre costituito una molla propulsiva eccezionale per il progresso della società umana, soprattutto nel campo della medicina ma non solo. Ritengo che l’eutanasia e l’aborto siano l’immobilismo e la rassegnazione, l’incapacità di reagire, di fronte a situazioni ed eventi tragici e dolorosi, il che comporta la mancanza di qualsiasi tentativo o sforzo per migliorare le condizioni generali della vita.

Alla ricchezza finanziaria di uno Stato, così come si prospettava nella Germania nazista degli anni trenta del secolo scorso, eutanasia ed aborto costituiscono un notevole vantaggio economico da “fare accettare” dato che consentono il risparmio di ingenti risorse. Infatti, piuttosto che adoperarsi per il miglioramento delle condizioni di esistenza delle persone, il che richiederebbe, ovviamente, l’utilizzo di notevoli finanziamenti, molto spesso il “potere politico” preferisce rivolgere la propria attenzione e le risorse economiche al consolidamento del proprio potere e della ricchezza spesso di pochi a fronte della miseria e della sofferenza di molti, al rafforzamento militare in vista di guerre che, come mi disse cinicamente una persona, “servono a ridurre la popolazione e fare spazio in un mondo affollato”. È questo che vogliamo per il nostro futuro? Dal rispetto e dalla salvaguardia della vita umana in tutte le sue circostanze, dal concepimento fino alla sua morte naturale, non può che scaturire una società più solidale, in cui giustizia e pace non sono pii desideri ma valori da perseguire, realizzare e mantenere con costanza e fiducia, in cui non esistono discriminazioni di alcun tipo ma ci sia uno sforzo comune, ognuno secondo le proprie possibilità e capacità, per migliorare le condizioni di vita di ogni essere umano. Ho l’assoluta certezza che non ci sarà mai un mondo di pace e di vera giustizia fino a quando non ci sarà un impegno serio e costante per valorizzare ogni vita umana in tutte le possibili circostanze, difendendola e salvaguardandola dal primo all’ultimo istante della sua esistenza naturale.

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